FIBA è una delle composizioni poetiche che Asma Elbadawi ha scritto su due dei temi a lei più cari, due aspetti della sua persona che sono inscindibili: il basket e la religione musulmana. Una dicotomia su cui ha costruito la sua vena artistica e una presenza mediatica che si esprime attraverso uno stile sportivo ma glamour, una combinazione mai vista prima che l’ha portata sulle pagine di Vogue Arabia sospesa a cavalcioni su un canestro con gli occhialoni dalla montatura bianca.
Nella storia di una ragazza sudanese cresciuta in Inghilterra potevano convivere molteplici narrazioni, ma comparire sulle pagine di una rivista patinata con l’hijab e la palla da basket è il risultato più improbabile per quella bambina che un pomeriggio si era trovata nel cortile della scuola con il ginocchio di un compagno di classe piantato in mezzo allo stomaco.
Il gioco, il corpo, il cibo, la lingua madre, il Sudan e le sue acque sono termini che ricorrono ciclicamente nelle poesie di Elbadawi, e sono tutte parole sottese a parlare di un cambiamento di luogo fisico e mentale che non può accadere senza pagare un dazio in cambio. Le cose che scegliamo di perdere durante il cammino dicono molto su dove vogliamo andare.
Ricordo la prima volta che vidi Asma Elbadawi e anche il perché non ho potuto fare a meno di tenere premuto il dito sull’immagine e salvarla fra le mie foto schizofreniche del cellulare. A guardare il suo profilo Instagram non è insolito imbattersi in foto in cui esegue movimenti da cestista alternati a immagini che la ritraggono in abiti di design e splendidi hijab di seta spesso in toni pastello. La sua eleganza e la perfezione delle luci fotografiche si affinano d’immagine in immagine. Scrollare il suo profilo all’indietro è come togliere i layer a un ritratto dipinto a olio di cui a un certo punto riusciamo persino a risalire ai tratti a matita.
In un post Instagram del 20 settembre 2018 Asma è in piedi avvolta in un velo rosso con ricami dorati. Il lungo drappo che la ricopre è poggiato con delicatezza sul capo, ricade giù sino ai piedi e sfiora un paio di Nike Air More Uptempo. Sotto il velo indossa una T-shirt rossa dei Chicago Bulls e l’hijab Nike Pro di colore nero. Ai suoi piedi poco più in là, in primo piano, una palla da basket con la pelle usurata dai campetti ruvidi. Una visione inedita, ma anche un modo di rappresentare una donna musulmana che personalmente non avevo mai visto prima.
«Chi è questa modella?», mi sono chiesta; ma la perfezione di quella figura non poteva lasciarmi dubbi. Non stava inscenando nulla, lei stessa doveva essere una sportiva. Conosceva il significato di quella maglia dei Bulls – non era solo un orpello – e sapeva indossarla meglio di molti e molte altre; ma conosceva anche il significato di quel velo rosso e dorato. Ciò che non era chiaro per me era il motivo per cui una donna indossasse entrambi i capi, uno sportivo e l’altro tradizionale, nello stesso momento. Quell’immagine sconvolgeva tutto ciò che sapevo sull’abbigliamento, su come scegliamo di vestirci per coprire il nostro corpo e allo stesso momento per offrire agli altri una certa rappresentazione di noi.
Asma Elbadawi è sì una giocatrice di basket di religione musulmana, ma è anche una poetessa di spoken poetry e un’attivista. Oltre al fatto che la sua passione per la pallacanestro l’ha portata ad allenare (squadre maschili).
Nata in Sudan ma cresciuta in Gran Bretagna, da tempo lotta affinché temi come l’identità, i disturbi alimentari e la salute mentale delle donne trovino il dovuto spazio e la necessaria diffusione anche attraverso media più accessibili come Instagram, oppure diventino oggetto di versi di una poesia forse non molto ricercata, ma di facile comprensione. Aspetto da non sottovalutare quando – per citare un altro verso di FIBA – metti piede nel mondo per fare la differenza.
A guardare i numerosi video sul suo profilo Instagram si vede subito che la tecnica di esecuzione dei movimenti cestistici di Elbadawi è appena più che buona, e che mancano la classe perfetta e la grazia del tocco delle giocatrici professioniste.
Ma il contributo fondamentale che questa sportiva ha dato al mondo della pallacanestro femminile passa non per i punti fatti in campo, quanto per una lotta durata più di due anni che ha portato a un nuovo regolamento grazie al quale la FIBA (Federazione Internazionale di Pallacanestro) ha rimosso il divieto di indossare copricapi o hijab in occasione di gare ufficiali. Prima di lei essere una donna musulmana osservante e al tempo stesso una giocatrice di basket professionista non erano aspetti conciliabili nella stessa persona.
Infatti, ancora nel 2014 il regolamento ufficiale della FIBA prevedeva regole restrittive e ambivalenti per quanto riguarda l’abbigliamento adeguato ai giocatori e alle giocatrici. Secondo la sezione 4.4.2 è molto importante che essi non indossino attrezzatura (oggetti) che possa ferire gli altri giocatori.
Ecco una lista dell’attrezzatura che non era permessa:
•protezioni per le dita, la mano, il gomito o l’avambraccio, gessi o bretelle (braces) di pelle, plastica o plastica flessibile, metallo o qualsiasi altro materiale rigido anche se ricoperto da imbottitura morbida.
•oggetti che possano tagliare o creare abrasioni (le unghie devono essere tagliate corte)
•copricapo (headgear), accessori per capelli e gioielleria.
Insieme alle unghie lunghe, alla gioielleria e a protezioni composte da sostanze rigide seppur ricoperte da materiali morbidi, sono elencati in maniera generalissima i copricapo, senza distinzione di materiale o uso. Ciò vuol dire che nel 2014 un hijab di stoffa vale come un caschetto in policarbonato, oppure un cerchietto rivestito di velluto, se a essere messa in pericolo è l’incolumità delle atlete. Asma Elbadawi non è la prima atleta e attivista che si trova la strada sbarrata per la carriera da professionista proprio a causa di questo regolamento che non si dà la preoccupazione di raffinarsi. Prima di lei, e lo vedremo fra poco grazie alle vicende di Bilqis Abdul-Qaadir, altre donne erano state poste di fronte alla scelta inconciliabile fra basket e abbigliamento modesto e davanti a questa aporia erano state costrette ad arretrare. Certe volte senza rimpianti, altre con talmente tanta rabbia e frustrazione da aver deciso di innalzare alta la fiamma della furia fino a spaccare il tetto di cristallo.
Il motivo per cui Elbadawi ha abbracciato la causa è il desiderio che le ragazze musulmane osservanti non si trovassero più davanti a una risposta negativa ogni volta che avrebbero provato a giocare il basket a un livello ufficiale. Se infatti esiste una regola che vieta loro di indossare un capo senza il quale non desiderano o non possono essere viste in pubblico, allora la conseguenza è brutale: lo sport non può essere giocato. Le donne musulmane vengono lasciate ai margini della maggior parte delle attività legate al corpo e allo sport non perché esse non pratichino attività legate al corpo, quanto perché si sceglie o di non dare loro visibilità oppure di rendere impossibile per loro queste attività.
Invece modificare l’articolo 4.4.2 del regolamento della FIBA avrebbe significato creare libertà, e insieme a essa una reale possibilità di scelta. E poi, molto più semplicemente, avrebbe contribuito ad allargare il campo di azione e consentire l’accesso al mondo dello sport a un numero incredibilmente più alto di ragazze.
da “Velata. Hijab, sport e autodeterminazione”, di Giorgia Bernardini, editore Capovolte, pagine 144, euro 14
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